La prima infanzia è il periodo di massima plasticità, quello in cui si edificano le basi per l’età adulta, e soprattutto quello “in cui è possibile individuare i precursori delle funzioni superiori, siano esse cognitive, comunicative, sociali e, per dirlo in un’unica parola, adattive. È possibile individuare anche i segnali di rischio per i disturbi del neurosviluppo, così come certi predittori delle traiettorie evolutive individuali. Per questo l’Istituto di Ortofonologia (IdO) ormai da qualche anno ha sviluppato una scheda di screening e monitoraggio neuroevolutivo dedicata alla fascia d’età 0-24 mesi, che non è uno strumento diagnostico ma uno strumento di supporto al pediatra nell’individuare precocemente quelle condizioni di rischio e di vulnerabilità e poterle monitorare”. A spiegarlo è Elena Vanadia, neuropsichiatra infantile e responsabile medico del servizio di Diagnosi e Valutazione dell’Istituto di Ortofonologia (IdO), nel corso del convegno per i 50 anni dell’Istituto, in programma fino a domenica.
“Fino ad oggi abbiamo analizzato 591 schede compilate dai pediatri- dice la neuropsichiatra- e il quadro che ne emerge è molto interessante: nel 4% dei bambini è emerso un punteggio che individua condizioni di rischio e di vulnerabilità tali da accendere una lampadina nel pediatra e, in base alla propria esperienza e ai suggerimenti allegati alla scheda, per valutare se monitorarlo, dare indicazioni specifiche al genitore o, invece, indirizzarlo verso una consultazione specialistica”.
Così come “è emerso un 4-5% di bambini con punteggi ‘di rischio’ negli item della scheda, che sono indicativi come campanelli di allarme per i disturbi dello spettro autistico”, spiega Vanadia.
Non solo. “Un altro dato interessante emerso, e confermato nello screening che stiamo portando avanti in alcuni nidi romani, è un’estrema diffusione di ritardi di linguaggio: siamo nell’ordine del 30-40% di bambini soprattutto nel secondo anno di vita”. In particolare Vanadia spiega che “più del 30% dei bambini entro i 18 mesi non produce neanche 5 parole, e più del 30% dei bambini entro il secondo anno di vita non ne produce 20 o non riesce a mettere insieme due parole”.
Una fotografia che secondo la neuropsichiatra “apre a una serie di riflessioni di ordine sociale: il tipo di stimolazioni a cui vengono sottoposti i bambini, il poco spazio dedicato al dialogo, al racconto, alla narrazione, alla lettura e a quanto, invece, tutto questo sia stato sostituito da altre modalità di stimolo. La tecnologia è una fra queste ma non è la sola”. E’ importante parlarne, sottolinea la neuropsichiatra, perché “al di là dei bambini che hanno chiari segni di disfunzione e di quelli che, invece, hanno uno sviluppo assolutamente adeguato, è importante attenzionare gli elementi di rischio per consentire al bambino in questione di non strutturare un disturbo arrivando ad aver bisogno della terapia. Modificando gli stimoli e l’ambiente alcuni casi possono sicuramente rientrare. Il nostro obiettivo, infatti, è comprendere quali siano i bisogni e quali siano le cause dei ritardi o delle atipie di questi bambini per indirizzare meglio il supporto al loro sviluppo, a partire dai contesti familiare e scolastico, cioè naturali”.
Vanadia tiene, infatti, a ricordare che “un ritardo di linguaggio a quell’età può essere un ritardo semplice, magari determinato dal fatto che il bambino continua a esprimersi come un bimbo ‘più piccolo’ poiché sta dentro a un quadro di immaturità emotiva, ma- dice la neuropsichiatra- può essere anche uno dei primi segnali di un disturbo più importante, che potrà essere specifico del linguaggio o, a volte, di un disturbo dello spettro autistico. In quest’ultimo caso il linguaggio è spesso il primo elemento che viene segnalato- avvisa la specialista- poiché è proprio il compito evolutivo principale di questa fase di sviluppo di cui parliamo”. In sostanza la neurospichiatra spiega che bisogna “discriminare quali bambini, e quindi quali famiglie, avranno bisogno di un supporto precoce e quali invece dovranno essere ‘semplicemente’ monitorati”. La scheda di screening consente di individuare “su una popolazione non a rischio, o non a rischio specifico, delle vulnerabilità su cui noi poi possiamo incidere positivamente”, conclude la neuropsichiatra.